La memoria dei contadini: un convegno molte riflessioni

Si è conclusa da circa una settimana la manifestazione “La memoria dei contadini. Musei, biodiversità e saperi della terra”, alla quale ho partecipato ospite del Comune di Santarcangelo di Romagna come relatrice a una delle due sessioni del tavolo dedicato a “Musei e Saperi della Terra”. Un’occasione interessante non solo per presentare un lavoro ma anche per osservare il percorso che l’antropologia sta conducendo nel ripensare la museografia e in special modo quella dedicata al mondo contadino.

E lo fa ponendosi tutta una serie di interrogativi indice del fatto che, al pari dei musei, sta rivitalizzando il suo operato indirizzandosi come materia applicata e non solo teorica. L’antropologia dell’alimentazione, o della produzione degli alimenti è sempre stata vista dagli antropologi come materia poco dignitosa per un’indagine seria, scrupolosa, scientifica e quando lo ha fatto è accaduto sempre in relazione a studi in cui il cibo era espressione di un fenomeno altro, quasi un corollario. Ora qualcosa sta cambiando. E’ un buon segno quello di antropologi che si incontrano e si mettono a parlare di agricoltura; sta nascendo un’etnografia delle agricolture contemporanee che dialoga con una museografia dell’agricoltura contemporanea per fare sì che i musei si trasformino in presidi del territorio.

Mi ha fatto quindi piacere notare che alla manifestazione non erano presenti solo specialisti; museografi ed etnografi, amministratori e politici, imprenditori e associazioni, gruppi di pressione e di autoaiuto, sono stati invitati al confronto per delineare meglio non solo la missione dei musei che sono legati al mondo contadino ma anche per discutere delle emergenze alimentari, i rischi per la biodiversità, la costruzione di un rapporto sostenibile con la terra, insomma tutti quei temi emersi dal manifesto internazionale di “Terra Madre” così incentrato sul rapporto fra memoria e futuro.

Non si vogliono più pensare i contadini come un passato da salvare, in questo la rete dei musei contadini italiani ha fatto un buon lavoro, adesso si tratta di mettere questi musei a disposizione di un futuro ancora contadino. In questo modo i musei non siano solo luoghi dove alle nuove generazioni si fa vedere come vivevano i nonni, ma  dove si cerca loro di far apprendere come si può imparare a vivere ancora.

Sono state queste le parole con le quali Pietro Clemente, Presidente della SIMBDEA, ha aperto i lavori della seconda giornata della manifestazione:

Questo permette a noi studiosi si recuperare la nostra missione di etnografi, di descrittori del mondo contemporaneo verso l’agricoltura del presente. Il museo non serve a conservare il passato ma a conservare il futuro, nel senso di ricorse, di possibilità, progettualità che servano in futuro.

Forse in pochi ancora conoscono La carta di Matera (fino a una settimana fa neanche io, devo ammettere), documento programmatico che nasce dal sud della Lucania (lì dove è nata l’antropologia italiana), fortemente voluto dalla Confederazione Italiana Agricoltori e che ci aiuta a ri-pensare l’agricoltura come futuro proprio perché ci siamo abituati a pensarla come passato. La carta mette in evidenza coloro che oggi continuano a produrre prodotti di qualità, di nicchia, a discutere  sul biologico o biodinamico riorganizzando, in questo modo, l’attenzione del sistema del patrimonio su una possibile agricoltura futura, sul fatto che il mondo agricolo, per esempio, è uno degli spazi dove da tempo avviene uno scambio interculturale molto più forte che in altri ambiti (vale l’esempio dei Sikh nella cura e produzione del parmigiano reggiano),  un’agricoltura ormai abitata da persone provenienti da tutto il mondo. E’ insomma questa la sfida che va colta.

Il mio contributo al convegno, intitolato “Desacralizzazione e sacralizzazione del territorio: biodinamica e viticoltura“,
è stato ospitato alla tavola rotonda “Musei contadini e biodiversità” dove ho parlato di vino e biodinamica in un’ottica antropologica, cogliendo un particolare aspetto di chi sceglie questa pratica,  gli aspetti rituali, sacrali che la biodinamica ha restaurato con il territorio riallacciandosi, in qualche modo, al vecchio calendario rituale contadino. Ha colpito in particolare il raffronto di tre immagini:

 

Il corno senbra essere una costante del sacro e del consumo del vino: dalla preistoria fino ai nostri giorni

 

Certo, è solo l’inizio di una ricerca. Mi è dispiaciuto infatti che la coordinatrice del mio tavolo, la direttrice del Museo Etnografico Seravella della provincia di Belluno  non solo non abbia capito l’intervento, non avendo letto la mia relazione, ma è mancata al suo ruolo di coordinatrice criticando un argomento che non ha approfondito come era suo compito fare. Sostenere, come ha fatto lei, che la biodinamica sia pratica agricola importata e che è meglio rifarsi a pratiche nostre di stampo più tradizionale è stato alquanto imbarazzante da ascoltare. Non penso che la responsabilità ecologica e agricola debba avere un “luogo” di provenienza, di certo  è importante che abbia un fondamento spirituale.

Alla luce di ciò, hanno senso le parole di Wendell Berry tratte da Il dono della buona terra, i fondamenti della responsabilità ecologica e del giusto uso umano della natura nel vecchio e nel nuovo testamento (Libreria Editrice Fiorentina, 1988). Mi sembra rispondano bene non solo a quanto ho colto solo intuitivamente nella pratica biodinamica ma anche alle critiche di chi non ha capito il senso della mia relazione:

Mettere in pratica conoscenze e strumenti in un luogo preciso con buoni risultati a lungo termine non è eroico. Non è una grande azione visibile da grande distanza né per molto tempo. E’ una piccola attività, ma più complessa e difficile, più esperta e responsabile, più completa e durevole della massima parte delle “grandi imprese”. Nasce da una disponibilità a dedicarsi con devozione ad un tipo di lavoro che forse solo l’occhio di Dio potrà vedere in tutta la sua complessità e perfezione. Forse il vero lavoro, come la vera preghiera e la vera carità, dev’esser fatto in segreto, (perché sono cose che hanno un contenuto d’amore) […]  Per vivere dobbiamo ogni giorno ferire il corpo della Creazione e versarne il sangue. Quando però lo facciamo con cognizione di causa, con riverenza e abilità e amore, è un sacramento. E quando lo facciamo con avidità, goffaggine, ignoranza e distruttività, è un sacrilegio. Con il quale condanniamo noi stessi alla solitudine spirituale a morale, gli altri alla miseria, tutti quanti alla morte, o eterna o precoce.

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