Le cucine migranti, tra nostalgia e meticciati politico-alimentari

Quando gli immigrati si adattano a un nuovo paese il modo più immediato in cui ciò avviene è attraverso il cibo che preparano: si guardano intorno e cercano di trasformare gli ingredienti che sono per loro disponibili (anche a livello economico, e forse soprattutto) in qualcosa che possono riconoscere a livello culinario. Questo spiega perché i figli degli immigrati – molto spesso – scoprono tardivamente che i piatti preparati in casa sono per lo più delle invenzioni, che non esistono in patria. Nascono così una nuove cucine, forgiate da ricordi sensoriali e nuove mescolanze di ingredienti: le cucine migranti.

Il cibo che nasce in queste circostanze non ha una ricetta codificata o una categoria ampiamente riconosciuta nell’ambito della gastronomia. Non è proprio “fusion”, ovvero la fusione di due diverse culture culinarie che ha spesso come obbiettivo quello di stupire o sorprendere, specialmente quando si traduce in cene di alto livello che un abile chef crea mescolando ingredienti di sapore etnico con qualcosa di locale. Così intesa la cucina fusion– in America, tra le minoranze etniche – è considerata “imperialista”, nata con l’intento di “civilizzare” le culture straniere e riabilitarle alla rispettabilità di una cucina eurocentrica.

Le cucine migranti sono invece il solo modo, per le persone che vivono in un esilio più o meno volontario, di colmare la distanza tra le loro nuove case. A differenza della cucina fusion, che spesso si concentra su innovazioni estetiche e rimescolamenti interculturali, questi piatti creati dagli immigrati sono delle vere e proprie fughe culinario-sentimentali che si organizzano su un nucleo di ricordi stratificati nel corso delle generazioni e che danno vita a una narrazione complessa ed emotivamente sedimentata. Come ogni storia di migrazione questo stile di cucina consiste nel raccontare una famiglia attraverso gesti, stranezze e ingredienti fuori posto.
Insomma, è difficile definirla, ma gli immigrati, e i loro figli, la riconoscono quando la vedono.

Un esempio, in merito, ce lo fornisce lo chef Saqib Keval, co-fondatore del People’s Kitchen Collective, un progetto di ristorazione comunitaria incentrato sulla narrazione e sull’organizzazione radicale della comunità attraverso il cibo. Saqib proviene da generazioni di migranti, la sua famiglia è originaria dell’Asia meridionale ed è poi emigrata in Etiopia e successivamente in Kenya. Ha imparato a cucinare dalle nonne, dalle zie e dai cugini e, attraverso ciò, ha imparato ad analizzare le ricette per tracciare i modelli migratori e le eredità familiari.

Un suo vivido ricordo, legato all’ infanzia, è quello relativo ai tacos farciti di ragù di berberè “alla bolognese”. La presenza di questo “concetto” del famoso sugo italiano, che si realizzava con macinato di carne a basso costo, berberè e burro chiarificato, aveva un compito implicito: simboleggiare la lotta di potere tra l’Etiopia e l’Italia fascista. Un’ingegnosa fusione di sapori presente nella sua famiglia e in quella di molti altri appartenenti alla loro comunità. Secondo Keval questo tipo di cucina è molto importante perché permette a migranti e colonizzati di avere un margine di azione. Adattando la cucina dei loro occupanti e deformandone i sapori “autentici” con i loro, gli occupati sono in grado di riformulare il rapporto di potere alle loro condizioni.

È interessante poi notare come questo ragù-etiopico-alla-bolognese sia oggi una modalità con la quale in Etiopia oggi si prepara la pasta, il cui consumo nel paese è in costante crescita, specialmente nelle aree urbanizzate, dove questo alimento è perfetto per i nuovi stili di vita e per il suo essere veloce e semplice da preparare, accessibile e compatibile con le abitudini alimentari del Corno d’Africa.
In Etiopia la pasta si mangia condita con il tradizionale berberé, così da avere i classici spaghetti con Berberé e una spolverata di formaggio ayib locale. Sincretismi alimentari di dimenticata storia??

Come qualsiasi comfort food infantile questo tipo di alimenti, così profondamente legati alla nostalgia di casa (in maniera più specifica ne ho scritto qui), hanno un grande ascendente sulle persone.
Bisogna tenere a mente che i bambini immigrati di seconda o terza generazione potrebbero non essere mai in grado di assaggiare quello che le loro famiglie mangiavano prima della migrazione, nonostante questo il gusto, bene o male, è codificato in loro. Questo spiega perché Keval trova più interessante studiare questo tipo di cucina piuttosto che intavolare un discorso sulle identità culinarie, visto che questo tipo di preparazioni le mettono pesantemente in discussione.

Si cucina così per combattere la tragedia di perdere la propria vicinanza a quanto è familiare, arrivando a “stressare” una ricetta con ingredienti che non le appartengono, ma senza che questa perda la sua anima.

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