Marketing antropologico e ristorazione tra Big e Thick data

Seguo da un po’ il gruppo DFM – Brigata Ristoratori Intraprendenti, un piccolo salotto in cui varie professionalità della ristorazione entrano in contatto per scambiarsi riflessioni e consigli. Spesso vi leggo il bisogno di arrivare al cliente, profilarlo e fidelizzarlo. E vedo che manca un qualcosa a me molto caro,e che sarebbe estremamente innovativo e di aiuto: il marketing antropologico. Relativamente all’antropologia alimentare ne avevo iniziato a scrivere qui.

Buona parte del marketing si è basata in passato sugli apporti delle scienze sociali puntando molto sull’analisi quantitativa, per studiare le dinamiche delle spese famigliari e individuali e i ventagli dei consumi.

Oggi l’analisi quantitativa e più conosciuta con il nome di Big data, e ogni azienda (in qualsiasi campo essa operi) sta affrettandosi a integrare, adottare e sfruttare questo genere di dati (compresi i relativi professionisti) all’interno delle proprie organizzazioni. Il fine è quello di prevedere il comportamento, profilare i propri clienti e migliorare il marketing. Un’attenta osservazione dimostra come ci sia una vera e propria ossessione per la raccolta e l’analisi di questi dati, oserei dire un loro fondamentalismo che sta preoccupando molti professionisti ed esperti del settore. La preoccupazione nasce dalla quasi completa impossibilità di integrare i Big data con l’altra faccia della ricerca, quella qualitativa; gli altrettanto famosi Thick data.

Ma procediamo per gradi, cosa sono entrambi?

Big data: È l’insieme delle tecnologie e delle metodologie di analisi di dati massivi, ovvero la capacità di analizzare e mettere in relazione un enorme mole di dati diversi per scoprire il legame tra fenomeni diversi e prevedere quelli futuri. Oggi la maggior parte di questi dati sono generati dagli algoritmi che le aziende raccolgono tramite Internet, tracciando il modo in cui gli utenti si comportano nel web per soddisfare le proprie esigenze sociali, consumistiche e culturali.

Il termine Thick data è stato reso popolare dall’antropologa Tricia Wang e si riferisce a “dati densi”, un cenno più che evidente alla “descrizione densa“dell’antropologo Clifford Geertz. I Thick Data si differenziano dai Big Data per il loro approccio qualitativo, ottenendo dati etnografici che permettono di rivelare contesti ed emozioni dei soggetti studiati. Mentre i Big Data richiedono un processo algoritmico solitamente condotto da statisti e matematici, i Thick Data sono il terreno di antropologi, sociologi e scienziati sociali.

Ad avvertire l’esigenza dei Thick data nel panorama del marketing mondiale (senza essere consapevoli che di questi dati si tratta) è l’altrettanto famoso bisogno di creare lo Storytelling aziendale, tanto utilizzato da blogger, influencer & Co. per implementare il bisogno di dare profondità ai big data che altrimenti risultano ‘poco umani’ e decontestualizzati.

Ma facciamo un esempio concreto di come lavorano entrambi le metodologie: sei un brand e vuoi valutare l’efficacia di una nuova campagna: l’offerta lanciata a marzo ha dato i suoi frutti? Come fai a esserne sicuro?

I big data ti consentono di vedere l’ammontare delle vendite, di comparare le varie voci dei servizi e oggetti venduti, anche da negozio a negozio. E così via, pura statistica.

I Thick data ti riportano, invece, cosa è accaduto in ogni singolo negozio in quel mese: quali sono stati i fattori che hanno contribuito alle vendite che non sono visibili nei numeri dei big data? Problemi del personale? Tempo atmosferico? Grandi eventi concomitanti con il lancio della campagna? Notizie locali che hanno attratto l’attenzione di tutti? E come si sta muovendo il brand sui social media?

Il processo di raccolta dei dati effettuato dai Big Data richiede una standardizzazione e un raggruppamento che toglie i risultati ottenuti dal loro contesto. L’immensa dimensione dei campioni rende impossibile concentrarsi su storie particolari, che sono piene di intuizioni ed emozioni fondamentali per capire la relazione tra il consumatore e il prodotto.

Quando le organizzazioni vogliono stringere legami più forti con le parti interessate, hanno bisogno di storie. Le storie contengono emozioni, qualcosa che nessun set di dati preso dal web e normalizzato può mai offrire. I numeri da soli non rispondono alle emozioni della vita di tutti i giorni: fiducia, vulnerabilità, paura, avidità, lussuria, sicurezza, amore e intimità. È difficile rappresentare algoritmicamente la forza del servizio/affiliazione di un prodotto e il modo in cui il significato dell’affiliazione cambia nel tempo.

Questo semplicemente perché quello che è misurabile non equivale a ciò che ha valore.

I Thick data sono il campo elettivo del marketing antropologico, che fa dell’etnografia il suo cavallo da battaglia. Grazie all’osservazione su campo, l’antropologo sa implementare ogni tipo di servizio o prodotto che si appresta a studiare. Il procedimento adottato è molto semplice: si osserva il comportamento umano nell’habitat naturale dei soggetti della ricerca e si registrano le interazioni dei clienti reali o potenziali con un prodotto o servizio.

L’atto di raccogliere e analizzare storie produce intuizioni, e queste ispirano design, strategia e innovazione.

Ma ancora meglio, l’antropologo cerca di trarre il massimo integrando tra loro Big data e Thick data. Un esempio in merito, di come lavorano in sinergia questi dati ci viene da Netflix. Consapevole del fatto che affidarsi solo ai Big Data crea immagini distorte degli utenti, Netflix ha optato per una prospettiva qualitativa contattando un noto antropologo, Grant McCraken. Lo studioso ha condiviso il salotto con gli utenti di Netflix in tutto il mondo, raccogliendo conoscenze etnografiche su cambiamenti nei modelli con i quali si guarda la TV, sulla cultura domestica e le relazioni offline. Mentre gli algoritmi di Netflix indicavano come interagivamo con la piattaforma, McCraken si concentrava sulla scrittura dell’esperienza completa, ottenendo un’enorme quantità di dati contestuali e nuove linee di innovazione.

In particolare Netflix voleva sapere cosa mangiano i suoi utenti quando guardano le serie tv. Da qui è nata e si sta evolvendo, tutta una serie di collaborazioni tra questa piattaforma e le App di food delivery. Non faccio fatica a pensare che molto presto guardando la mia serie TV preferita, io possa orinare del cibo via App, in sintonia non solo con i miei gusti ma anche in linea con l’ambientazione cinematografica a cui sto assistendo (cibo etnico, cibo storico, drink e cocktail, pasticceria ecc. ecc.).

Nel mondo anglosassone la domanda di cibo da asporto, ordinabile via App, è molto più variegata e veloce che da noi. Le nuove generazioni, dai Millennia in poi, la prediligono. Ecco perché i ristoranti stanno studiando attentamente il fenomeno, sia a livello qualitativo che quantitativo. Modellando l’offerta sul tipo di cliente che si trovano a servire, fuori o dentro il loro locale.

Il nuovo importante lavoro di un proprietario di ristorante (o di un’azienda del Wine&Food) e di un suo responsabile marketing, a questo punto, è quello di garantire che il brand stia raccogliendo le migliori informazioni possibili, sia a livello di Big che Thick data. Solo in questo modo si otterranno i migliori risultati.

Il marketing antropologico è un buon punto di partenza, in quanto permette di imparare a pensare come fanno i consumatori reali e potenziali, avendo presente il valore simbolico che per essi quel prodotto o servizio assume o può assumere. Il risultato di una duplice analisi: poco fondamentalista, molto umana. Certo richiede più tempo, ma anche campioni più piccoli da studiare. Ne parlerò ancora, perché è un tema per me molto affascinate, e ovviamente da approfondire ulteriormente.

Tu intanto, ristoratore o semplice cliente, cosa ne pensi?

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