Diversità culturale e dietetica

Ho precedentemente accennato a come il nostro concetto di dieta salutare escluda le altre culture, e quanto questo sia un problema estremamente attuale oggi che, le varie professionalità della ristorazione collettiva e di servizi sanitari, sono chiamate a fronteggiare e risolvere. In che modo possono farlo, però? Vediamo come si stanno muovendo in America e in Italia.

Iniziamo facendo un esperimento: googliamo “ricette salutari”. Basta poco per renderci conto che una sana alimentazione sembra basarsi su un ristretto numero di ingredienti, e che la definizione di sano è piuttosto circoscritta. Ma specifichiamo meglio: noteremo come la maggioranza delle ricette presenti siano di matrice occidentale, escludendo di fatto altre concezioni culturali di cibo salutare. Come se fosse sano solo il mangiare occidentale e la varietà e la ricchezza dell’altrui mangiare venga relegata a ciò che si ignora, e quindi al poco sano.

Torniamo in Italia adesso e facciamo un po’ di conti. Il nostro paese è ormai a tutti gli effetti un paese multietnico e multiculturale in cui sono rappresentate 194 etnie e professate 18 religioni. Negli ultimi 100 anni, poi, è andato continuamente aumentando il numero di persone che usufruiscono, per bisogno, di uno o più pasti fuori casa. E’ alla ristorazione commerciale (ristoranti, alberghi, trattorie, pizzerie ecc.) e di servizio (mense aziendali e scolastiche, ospedali, caserme, carceri, istituti per anziani ecc.) che spetta il compito di soddisfare questa esigenza (Nel 2016 il 35% della spesa dedicata all’alimentazione è avvenuta fuori casa nei 300 mila punti di ristorazione in Italia). A questo fattore se ne devono sommare altri due, non meno importanti; la crescita della popolazione straniera (per turismo e immigrazione) e il crescente numero di persone che per motivazioni etico-morali scelgono alimentazioni particolari come i vegani e i vegetariani, e quelli che lo fanno per questioni di salute (celiachia, intolleranze varie ecc.).

Ora concentriamoci sui servizi sanitari e ai suoi operatori: rispettivamente ospedali, dietisti e nutrizionisti. Come stanno affrontando questo fenomeno?

Nell‘intervista che mi ha rilasciato la nutrizionista Valentina Viti deduco che qualcosa si sta muovendo su tema dieta e alimentazione tradizionale del paziente, ma non abbastanza. Sul fattore alimentazione e ospedali vi invito (lo problematizzerò in altra sede) a guardare la puntata di Petrolio del 3 novembre 2018, che gli dedica una buona parte della trasmissione.

Sul lavoro degli operatori sanitari torno a guardare all’estero, e mi imbatto nella realtà di Diversify Dietetics (bellissimo già il gioco di parole). Si tratta di una community di persone di colore iscritte all’albo nazionale americano di nutrizionisti e dietologi.

Se andiamo sul loro sito la mission è subito chiara:

Il profilo professionale dei nutrizionisti è sostanzialmente rimasto invariato dal 2007. Nel contempo i pazienti sono cambiati.

Gli studenti di altre etnie hanno bisogno di tutor e risorse per apprendere percorsi educativi alternativi al canone alimentare occidentale, che non contempla il tema della diversità culturale. Lo stesso vale per chi lavora nel campo della nutrizione, a livello accademico, come educatori e direttori di percorsi formativi per dietologi e nutrizionisti, che hanno bisogno di risorse per attrarre, educare e formare persone di etnia diversa. L’intento è quello di aumentare la diversità nel campo della nutrizione, consentendo agli studenti e ai giovani professionisti, provenienti da gruppi di minoranza etnica, di unirsi alla prossima generazione di nutrizionisti e dietologi.

Dobbiamo tenere a mente che il fenomeno migratorio modifica il modo di porsi della medicina e del concetto di cura; gli operatori sanitari devono entrare nell’ottica di questa lenta e graduale trasformazione: da una medicina isoculturale a una transculturale. Le politiche sanitarie devono necessariamente tenere in considerazione l’eteroculturalità e promuovere la formazione specifica in ambito transculturale di tutti gli operatori socio-sanitari.
Tra le diversità culturali peculiari appaiono le abitudini alimentari. E’ ormai un dato di fatto che le pratiche alimentari dei gruppi etnici stabili o in transizione (e qui includo anche i flussi turistici) sono soggette a pressioni verso il cambiamento. Le abitudini alimentari possono essere modificate per rispondere alle richieste dell’acculturazione, un’arma a doppio taglio che può migliorare come peggiorare la qualità nutrizionale della dieta. In quest’ultimo caso è naturale assistere all’aumentare di tutta quella serie di malattie metaboliche (diabete, obesità, disturbi cardio e cerebrovascolari, ipertensione ecc.) nella popolazione migrante (tenendo conto che il più delle volte questa è caratterizzata da basso reddito e quindi acquista cibi scadenti).

Nella formazione accademica dei professionisti socio-sanitari che si occupano di alimentazione non è però contemplata la competenza culturale (o solo molto marginalmente, il che si traduce per esempio, nel prescrivere a un paziente messicano di sostituire il pane con le tortilla o, per un cinese, la pasta con il riso).

Tessa Nguyen, una dei fondatori di Diversify Dietetics spiega bene questo punto “Ho iniziato a capire presto che la nostra formazione non includeva la conoscenza di altri sistemi alimentari. Ciò significava che una volta usciti dall’università i professionisti non erano stati formati a utilizzare diete alternative a quella occidentale nel prescrivere stili alimentari o nel preparare materiali educativi. Viene semplicemente insegnato a perpetuare l’idea che i modelli alimentari occidentali sono l’unica strada per una sana alimentazione”.

Ma insegnare o prescrivere a studenti o pazienti un’alimentazione sana non significa adattare una diversa cultura a una dieta eurocentrica. Il passaggio da fare è quello di cercare di capire il modo in cui i pazienti mangiano, sia giornalmente che in occasioni speciali, come cucinano, le loro pratiche intorno alla preparazione e al servizio del cibo, gli ingredienti di base e il loro modello di consumo alimentare. Ogni minimo dettaglio è importante.

Sappiamo che il cibo rappresenta molto a livello simbolico. Per le persone immigrate a volte è l’unico modo di sentirsi a casa.

Continua ancora Tessa “Quando mi sono ritrovata a consigliare a pazienti immigrati negli Stati Uniti un regime alimentare occidentale questi mi guardavano mortificati, “So che devo smettere di cucinare e di mangiare come facciamo a casa” era la loro risposta. Dopo un po’ mi sono resa conto che non avevano mai visto gli alimenti presenti nelle nostre canoniche ‘piramidi alimentari’, anzi li ritenevano poco sani. Era come se dovessero scegliere tra la loro eredità culturale e la loro salute. Nessuna persona dovrebbe mai dover prendere questa decisione. Come nutrizionisti dobbiamo fare lo sforzo di ricercare gli ingredienti idonei alle culture alimentari dei nostri pazienti e adattare i nostri metodi di consulenza e valutazione per includere quei pasti. Non è diverso dal lavorare con un paziente che ha allergie alle arachidi o è intollerante al lattosio. È semplicemente parte del nostro ruolo come fornitori di servizi sanitari. Inoltre, escludendo altre culture quando parliamo di un’alimentazione sana, si perpetua l’idea di cibi “buoni” e “cattivi”.

Molte volte siamo portati a generalizzare le altre cucine, a incasellarle nei ristoranti etnici, che altro non sono che un adattamento di quelle cucine al gusto occidentale. Trovo limitante giudicare la salubrità del cibo di una cultura che si basa su un meccanismo di questo genere, piuttosto limitato.

Il consiglio di Tessa è molto semplice “Per aiutare veramente le comunità con cui lavoriamo, nutrizionisti e dietologi devono studiare la diversità e ampliare l’idea di ciò che sembra una sana alimentazione. Dobbiamo studiare gli alimenti delle altre culture, e l’impatto che la dieta occidentale ha su queste persone“.

Come fare, quindi?
Se viviamo in una zona con una grande popolazione di immigrati, andiamo a visitare i negozi e i mercati alimentari di quel quartiere. Immergiamoci nelle loro cucine casalinghe per scoprire quali sono gli ingredienti con cui le persone cucinano, il modo in cui ne parlano o vi si relazionano, anche e soprattutto durante la preparazione dei pasti, nel giornaliero come nel periodo festivo. Ma soprattutto andiamo a mangiare la loro cucina in quei piccoli ristoranti dove si recano per trovare i sapori di casa.

Per questo mi sento di consigliare Migrantour che, in varie città di Italia, sta portando avanti questa bellissima iniziativa di portare gli italiani a conoscere gli usi e costumi delle etnie presenti nelle grandi città, usando come guide proprio gli stranieri che vivono da tempo nei quartieri che vanno presentando. Ho partecipato più volte, e sono state tutte esperienze veramente molto interessanti, che mi hanno insegnato a guardare la mia città con i loro occhi.

Tornando all’aspetto sanitario dell’alimentazione, non posso citare il lavoro che sta portando avanti l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle Popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della povertà di Roma (INMP). Istituzione che ha più volte organizzato corsi sull’alimentazione transculturale e che è molto attento a questa tematica. Ciclicamente organizza dei corsi per i professionisti del settore, ed è anche una delle poche realtà italiane che contempla la figura dell’antropologo dell’alimentazione.

Chiudo sperando che questo post sia un po’ una provocazione per i vari albi professionali, e anzi invito chi è interessato ad aggiornarmi in merito a nutrizione e multiculturalità, mi farebbe veramente piacere!

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