Cucina povera: fame e menzogne

La fame? Il miglior ingrediente di quella che viene definita “cucina povera”.  La scarsità di risorse alimentari, condizione costante nella vita dei contadini, ha così generato quelle che Ottavio Cavalcanti definisce “menzogne alimentari”, stratagemmi e abili sofisticazioni  nate per mascherare condizioni di vita disagiate, tavole povere o percepite come tali.

Nascono così quelle ricette che mancano degli ingredienti cardini dai quali prendono il nome, in un gioco fatto di sogni e desideri. Primo fra tutti questi ingredienti è la carne.
Così la polpetta, che il Nuovissimo Melzi (1964, vol. I, pag. 913) definisce rotolino di carne tritata con formaggio, prezzemolo e uova che si frigge o si cuoce in umido o anche con salsa, specialmente di pomodoro si trasforma in polpetta di verdura, ugualmente il polpettone ovvero un rotolo di carne tritata di una certa grossezza, con formaggio, prezzemolo, uova, noce moscata, cotto in umido (ibidem, pag. 913) ci viene proposto da Carnacina e Veronelli nel loro “La cucina rustica regionale” (Milano, 1977) a base esclusivamente vegetale, con bietole e fagiolini verdi (ma anche patate e formaggio, zucca, di uova ecc.) che prendono il posto della sospirata carne. Al pari il famoso ragù si trasforma in ragù dell’ortolano, dove patate, piselli, carote, fave cipolle diventano il surrogato dell’ingrediente  principale della ricetta originaria.

Andando più nello specifico a Palermo troviamo la famosa ricetta del “coniglio all’argentiere” che consiste in un pezzo di formaggio fuso in forno e condito con aceto, di carne neppure l’ombra. Molto probabilmente il nome di questa ricetta prende spunto, narrano le cronache, da un modesto artigiano che ricorreva a questa tecnica culinaria per mascherare l’assenza perenne di carne dalla sua tavola, in particolare si pensa che l’idea di battezzare “coniglio” il formaggio derivi dall’associazione del bianco delle membra dell’animale con quello del latticino.

Ma questo non vale solo per la carne, il famoso “pane e formaggio” che mangiavano i bambini nella fascia silana (Cosenza) non aveva dentro nessun tipo di formaggio, si trattava di 2 tipi di pane diversi tra loro per colore, qualità e consistenza, dove il pezzo più piccolo fungeva da companatico. Ancora a Palermo la famosa “pasta con le sarde” aveva un sorella più povera la “sarde a mare” dove appunto il pesce era del tutto assente (ah, l’ironia popolare!). Sullo stesso tema, stavolta in Puglia, troviamo in un ricettario del Settecento i “vremeciedde cu suche du pesce fesciute” (vermicelli con il sugo di pesce scappato), sullo scappato fate voi (ma “scappati” sono anche tanti uccelli presenti in ricette venete e lombarde!). In Sicilia, invece,  i finocchi tagliati a quarti e poi infarinati e fritti vengono detti “pisci di terra”.La Toscana presenta una minestra  senza carne detta “vedova” che trova una perfetta corrispondenza lessicale in pietanze calabresi e campane di verdure miste a carne, le famose minestre “maritate”.

Se da una parte queste ricette nascono per rimediare a una sostanziale mancanza di un alimento desiderato dall’altra danno vita a un diverso piacere, generato da una gratificazione del palato di tipo verbale, un gioco tra mancanza e ironia, che media tra immaginario e reale. Allo stesso modo la finzione culinaria può essere utile per difendersi da qualcosa che viene percepito come minaccioso e pericoloso, ecco allora nascere tutta quella serie di ricette come le “ossa dei morti” siciliane, che esorcizzano la morte, cibi rituali che nel simbolico trovano un modo per placare ciò che non è gestibile a livello umano.

Nelle società contadine, dove l’abbondanza alimentare non era di casa, la finzione aveva anche il compito di ostentare ricchezza e benessere (che non si avevano), per non far sfigurare la famiglia, si ostentava quindi lo status. Ecco come Umberto Majoli descrive il comportamento dei paesani del ravennate in occasione delle feste:

A girar la domenica mattina lungo il sobborgo si notava che accanto alla soglia di ogni casa erano ammucchiati gusci d’ovo, specialmente ossa e altri avanzi di generi alimentari, come se in ogni casa si fosse preparato un pranzo per quattro dozzine di persone almeno… Ma non ci state a credere! E’ un trucco! Quegli avanzi sono stati messi da parte almeno per tutto un mese. E la mattina presto di questa domenica di festa ogni massaia si è affacciata cauta sull’uscio, e quando è stata ben certa che nessuno la vedeva ha rovesciato tutti quei gusci d’ovo, quelle ossa, quelle croste di forma accumulate per tutto un mese, accanto alla sua porta. Per fa dire più tardi al passante: Azzidenti! In sta ca j ha propi mèss e pozz a mòll! Quanti miera d’caplett as magnarai mai incù? (accidenti! In questa casa fanno veramente di grosso! Ma quante migliaia di cappelletti mangeranno oggi?)

(U. Majoli, Quando noi nonni… Casi, case e… cosi di Ravenna d’una volta, Lavagna, Ravenna 1947, pp.. 318-319)

Vittorio Tonelli invece, nel suo Romagna è donna del 1994, testimonia un’usanza simile, stavolta nella Valle del Savio, dove in occasione di un banchetto nuziale, la cuoca

Invitava a buttare dalla finestra, ben in vista, i gusci delle numerose uova usate per sfoglie e dolci, a prova dell’opulenza del pranzo, di cui si doveva andar fieri negli anni della miseria.

Menzogne e finzioni quindi, per nascondere la fame, combattere l’ignoto e immaginare che il paese della cuccagna fosse sempre dietro l’angolo.

 

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