Antropologia, cibo, Cina e Covid-19

E’ possibile etnicizzare una malattia, e nel caso, a causa di cosa mangia?
L’attuale pandemia di Corona virus, che sta coinvolgendo tutto il mondo, sembra purtroppo rispondere affermativamente a questa domanda.

Ma procediamo per gradi, come sappiamo la fonte dell’epidemia è stata la città di Wuhan, in particolare il suo mercato umido , dove oltre a essere venduti generi alimentari vari vi era anche la vendita di animali vivi selvatici (pipistrelli, zibetti, ratti, serpenti, pangolini ecc.). Pur non essendo ancora stato confermato il legame tra il mercato e il virus (secondo questo articolo pubblicato su Lancet) le conseguenze sul popolo cinese sono state devastanti non solo a livello economico ma anche – e sopratutto – antropologico e umanitario, scatenando una vera e propria ondata di razzismo nei loro confronti.

Il potenziale legame tra cibo e COVID19 – che secondo i pregiudizi – ha scatenato quest’ultimo, ha avuto un ruolo disumanizzante sul popolo cinese, riaccendendo vecchi ceppi di razzismo e xenofobia che lo hanno additato come “altro”, incivile barbaro, portatore di malattie pericolose e contagiose a causa di ciò che mangia.

Vale la pena ricordare che non appena è stata confermata dal governo cinese l’epidemia, il web è stato letteralmente sommerso da video di trattamenti orribili destinati agli animali prima di venire consumati a scopi alimentari, e da commenti sui social estremamente duri nei confronti dei cinesi. L’idea, neanche tanto sotterranea, era che i cinesi si meritassero quanto stava loro accadendo a causa del grado di inciviltà legato alle loro abitudini alimentari.

Questa ondata di sinofobia (avversione o paura verso i cinesi) legata al cibo non poteva che risvegliare in me alcune doverose riflessioni che desidero condividere con voi, perché anche in Italia questo razzismo è stato presente, e perché anche se non legato al cibo, anche noi siamo stati “ghettizzati” una volta che il virus si è spostato nel nostro paese, rendendoci pericolosi per le altre nazioni.

Come antropologa dell’alimentazione mi sta a cuore sottolineare i meccanismi attraverso i quali, ancora una volta, la dieta occidentale si fa specchio di un comportamento ipocrita che la porta a considerarsi l’unica detentrice di canoni alimentari salutari e giusti per tutti (ne ho scritto qui), e che in merito a questo decide che alcuni animali siano socialmente ammessi da mangiare, mentre altri no. Questa egemonia culturale è la stessa che produce idee razziste.

In antropologia dell’alimentazione le categorie di ciò che, all’interno di una cultura, è ritenuto commestibile o meno ricoprono un’importanza basilare. Lo studioso Claude Fischler ha ben sottolineato come attraverso la relazione che l’uomo intrattiene con il cibo (il principio classificatorio) ogni cultura seleziona (dal suo contesto ecologico) una grande varietà di alimenti che è destinata a diventare cibo o no (e questa ultima categoria sarebbe in grado di parlare da sola). Ecco perché le tradizioni culinarie non vanno considerate semplicemente una serie di ingredienti messi insieme casualmente, ma il risultato della storia evolutiva di un popolo nel suo far fronte alla disponibilità di piante e animali commestibili, alle malattie più frequenti, alle siccità.

La scelta di cosa mangiare dipende da fattori materiali, ecologici, nutrizionali ma anche dalla cultura, come vedremo più avanti. Facciamo un esempio pratico, per fermarci a questi primi tre fattori: gli animali da compagnia o pet. Animali verso i quali le persone hanno sentimenti amichevoli, che nutrono e accudiscono e che entrano a far parte, a tutti gli effetti, della famiglia (cani, gatti, criceti ecc.). Eppure già all’interno del mondo occidentale la concezione di pet è diversa, basti pensare che gli inglesi considerano tale il cavallo, animale che in Italia e Francia è invece tranquillamente consumato.

Ma quando le pratiche alimentari – oltre che ritenute strane e inquietanti – sono legate nell’immaginario a paure legate alla salute si arriva a “disumanizzare” chi le attua, ed è quello che è accaduto al popolo cinese.

Se andiamo ad analizzare nel dettaglio la situazione, le lamentele rivolte ai cinesi si focalizzano più sulla crudeltà della macellazione e sulla quasi totale mancanza di benessere e condizione igieniche degli animali destinati al consumo umano (mi riferisco al trattamento dei cani all’annuale Lychee and dog meat festival di Yulin).
Se l’obiettivo è, giustamente, un trattamento etico per questi animali, queste pratiche vanno eliminate. Dopo la scoperta del focolaio di Covid 19, il governo cinese si è attivato immediatamente per aumentare gli standard di igiene e le normative dei mercati del paese, emettendo nel contempo un divieto sul commercio di animali selvatici. Proprio di questi giorni poi, è la notizia che il ministero dell’agricoltura cinese sta apportando sostanziali modifiche alle linee guida riguardanti gli animali destinati alla macellazione, che avranno attuazione dal 1 maggio 2020: cani e gatti non saranno più considerati bestiame ma animali da compagnia.

Ciò cambierà i gusti e gli atteggiamenti alimentari cosi profondamente radicati nella cultura e nella storia della Cina?

Non completamente, ci vorrà tempo tenendo conto che la carne di cane è considerata una prelibatezza in molte regioni del paese.

Il consumo di certi animali in Cina non è solamente alimentare, ma influenza anche la medicina tradizionale. Vi è poi l’idea culturale che gli animali esistano per servire all’uomo, non a caso il consumo alimentare e medico di animali selvatici è più marcato nelle zone rurali o povere del paese (dove si pensa che il loro consumo abbia effetti positivi anche sulla salute).


Sicuramente l’avviso pubblicato dal ministero dell’agricoltura cinese l’8 aprile, in cui cani e gatti escono fuori dall’elenco ufficiale degli animali che possono essere macellati e consumati, è una svolta epocale per il paese. La spinta interessante al cambiamento si può osservare specialmente nelle nuove generazioni, che stigmatizzano fortemente il loro consumo utilizzando anche i social e le piattaforme di consenso online per influenzare l’opinione pubblica.

Marvin Harris concludeva il suo famoso “Buono da mangiare” asserendo che “[…] l’incapacità di cogliere le cause razionali di abitudini alimentari apparentemente irrazionali può portare all’adozione di rimedi inefficaci se non pericolosi.” Abbiamo visto la reazione disumanizzante e razzista dell’occidente alle pratiche alimentari cinesi, lasciamo ora a questo paese (che detiene una delle cucine più importanti e complesse del mondo, ne ho scritto qui) il diritto di fare il suo percorso culturale di consapevolezza in merito.

Parlerò ancora della relazione tra etnobiologia e gastronomia, intanto se volete approfondire in questa ottica il discorso vi segnalo l’interessantissimo articolo “Baby pangolins on my plate: possible lessons to learn from the COVID-19 pandemic

Buona Lettura!

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