World obesity day 2018: obesità e ristorazione [parte 2]

Nel precedente post dedicato al World Obesity day 2018 mi sono particolarmente focalizzata sul rapporto esistente tra obesità, etnia e salute, ripromettendomi – nella seconda parte – di dedicare la stessa attenzione al ruolo che la ristorazione collettiva e l’industria alimentare hanno su questo complesso fenomeno sociale e di salute. A colpirmi questa volta un altro paese: l’Africa e in particolare il Sud Africa. Qui un particolare tipo di ristorazione – i fast food – ha innescato una vera e propria epidemia di salute.

Fast food e Africa
Il primo McDonald’s ha aperto a Johannesburg quasi due decenni fa, in migliaia hanno fatto la fila in attesa di assaggiare uno dei suoi famosi hamburger. Dato un tale entusiasmo, non c’era da stupirsi che il Sud Africa dimostrasse di essere terreno fertile per questa catena di fast food, battendo il record di aperture con l’inaugurazione di 30 punti vendita in meno di due anni. Oggi l’azienda gestisce più di 200 ristoranti in tutto il paese. Quando tre anni fa il rivale, Burger King, finalmente è entrato nel mercato è stato salutato con scene altrettanto fervide, quasi 5.000 persone sono arrivate a Cape Town per il lancio di questo marchio. Alcuni sono arrivati a dormire perfino per strada pur di assicurarsi di mettere le mani su un panino “Non ci aspettavamo un successo così grande” ha confessato il suo direttore più tardi.

E così il cibo di queste catene di ristorazione si è trasformato velocemente sia in comfort food che in problema sanitario e sociale, facendo dell’Africa uno dei paesi con il più alto tasso di obesità al mondo. Quasi due terzi della popolazione è in sovrappeso e, a differenza del mondo sviluppato, il problema affligge più donne che uomini.Incredibilmente, il 69,3 % delle donne sudafricane ha livelli non sani di grasso corporeo e più di quattro su 10 sono clinicamente obese.
Altro fattore non trascurabile è che anche in Africa le questioni culturali contribuisco ad alimentare l’obesità, è infatti un paese dove gli uomini grassi sono considerati di successo e le donne obese bellissime (Uno studio del Consiglio di Ricerca di Scienze Umane ha rilevato che l’88% dei sudafricani considera un corpo grasso come ideale). A riprova di questo basta dare un’occhiata a internet per vedere come i siti di incontri specializzati in persone “cicciotelle” siano in crescita.
Così, assurdamente, in Africa vediamo coesistere due estremi: l’obesità e la malnutrizione. In entrambi i casi il paese non è in grado (e forse per molto tempo ancora a venire) di farvi fronte; i costi legati alla sanità sono enormi, e subito dopo l’obesità, e la fame il paese sta combattendo L’HIV.

L’industria alimentare
Anche l’industria alimentare ha contribuito a questo stato delle cose. La necessità di cibo e di prodotti alimentari per la sopravvivenza umana ne ha garantito la prosperità , arrivando a plasmare la storia del genere umano. L’agricoltura è stata un’importante tassello di questa storia, e il fattore chiave del suo sviluppo. In Asia e in Africa, come in altri paesi in via di sviluppo, la storia agricola è antica, e strettamente legata alle tradizioni locali, cosa che non si può affermare per l’America, che vanta però una delle industrie alimentari più attive e pervasive della contemporaneità.
Per la maggior parte della storia umana, il cibo è stato prodotto e consumato in base alle esigenze immediate, diventando la risultante di culture alimentari che si sono sviluppate in relazione a etnie, religioni, climi, stagioni, malattie e ingredienti disponibili. Sono passati meno di un paio di secoli da quando sono state create le industrie alimentari, con una produzione di massa basata su sistemi automatizzati, che ha trovato il suo vertice negli anni ’80. Sviluppo e ricerca erano puntati a massimizzare la produzione di cibo ad alto contenuto calorico.
L’inevitabile declino è stato il risultato proprio della perdita di fiducia e di valori verso l’industria alimentare.
Il cibo, e la cultura che gli gira intorno, è cambiato. Non si tratta più di soddisfare la fame ma di considerare l’alimentazione all’interno di una cornice di senso che prende in considerazione benessere fisico e psicologico, tempo libero, cultura e salute. Questo implica spostare il mirino della ricerca e dello sviluppo di prodotti alimentari, e puntare su servizi associati al cibo.

Sono necessarie nuove ricerche su come creare valori nei servizi alimentari, che riguardano non solo la nutrizione in senso stretto ma anche il legame con la conoscenza tradizionale, la salute, la cultura e la storia. In questo nuovo ambito di ricerca lo sviluppo di contenuti significativi diventa un fattore chiave di successo nell’industria alimentare. Ecco perché punto molta attenzione al cibo etnico. Avendone dichiara la portata e il significato verrà da sé considerarlo un servizio imprescindibile al benessere comune, e quindi con un valore in crescita. In questo discorso includo anche la nostra dieta mediterranea, se considerata nel giusto contesto geografico, agricolo e di genetica delle popolazioni.

Le diete etniche saranno il futuro di una nuova industria alimentare. Non si tratta solo di utilizzare la tecnologia moderna, ma di attingere a valori più profondi, e in questo il cibo etnico è una grande potenzialità per prosperare nel mercato alimentare globale futuro.

Il parere dell’esperta
Uno dei primi servizi associati al cibo, che mi viene in mente, è quello della ristorazione collettiva. Per questo ho chiesto il parere di un’amica: Nicoletta Polliotto esperta di Food & Restaurant marketing e autrice di varie pubblicazioni, tra cui il suo ultimo libro. A lei ho chiesto come la ristorazione sto affrontando il problema dell’obesità:

Nicoletta, Quale può essere il ruolo della ristorazione in tema di educazione alimentare?
Con il mio blog abbiamo da sempre riservato interesse e spazio ai temi dell’obesità, soprattutto infantile. Ritengo che ci sia una correlazione tra le esigenze e i bisogni degli ospiti e la definizione ed evoluzione della proposta ristorativa italiana. Storicamente la cucina italiana, vuoi con la tanto citata dieta mediterranea, vuoi con la valorizzazione dei prodotti specchio della grande biodiversità che connota la nostra produzione agroalimentare, è connessa con abitudini alimentari sane e di qualità. Oggi più che mai, le esigenze degli ospiti vanno verso un’attenzione sempre maggiore a coniugare buona tavola ed esperienze del food con le proprie preoccupazioni ed esigenze alimentari, complici insorgenze e aumenti di intolleranze e disagi collegati al cibo.
I gusti poi stanno mutando: vanno innegabilmente verso un’esperienza più leggera, saporita ma non pesante. Anche la porzionatura (numero elevato di portate e proposte, piatti ricolmi e richieste di bis…) si è ridimensionata. Nel contempo c’è un’esigenza sempre più sentita di combattere gli sprechi alimentari evitando di avanzare, abbandonando il piatto a metà. Il ristoratore non può ignorare tali esigenze, tra l’altro condividendo valori con gli ospiti e ottimizzando food cost e proposta gastronomica.
Lo chef ha inoltre pressante un ruolo sociale rinnovato, come anticipava Gualtiero Marchesi nel suo decalogo: deve educare, valorizzare prodotti e tradizioni, trasmettere valori e conoscenza.
Ce lo testimoniano chef internazionali, quali Jamie Oliver da sempre impegnato contro l’obesità infantile, ma anche colleghi italiani che si fanno ambasciatori di progetti importanti, penso a Massimo Bottura e Niko Romito, solo per citarne alcuni.

Che tipo di comunicazione andrebbe studiata perché un ristorante possa veicolare anche un messaggio di educazione al buon mangiare e bere?
Soprattutto sul web, temi e modelli comunicativi che funzionano sono sopratutto quelli che ti fanno entrare in empatia con il tuo pubblico. Consolidano la relazione e cementano la community intorno alla figura dello chef e al brand del ristorante. Certi temi sono facilmente divulgabili, sono virali nella condivisione sui social media, favoriscono l’engagment e alimentano il senso di appartenenza. Modo efficace per tramutare i propri ospiti o lettori in ambasciatori del tuo brand.
Si può entrare in community già esistenti solo perché si condividono valori comuni, penso ai gruppi delle mamme se si propongono menù salutari dedicati ai bambini o se si dimostra sensibilità ai temi delle intolleranze e delle preferenze (dal vegetarismo al crudismo). In tal caso tutta la comunicazione online e offline dev’essere coerente e convergente. Insomma meno marketing emozionale più marketing esistenziale, come suggerisce il bel libro di Gnasso-Iabichino.

Con questo post termino, almeno per ora, il discorso inerente all’obesità e all’antropologia. Sicuramente non sono stata esaustiva, ma il mio scopo non può essere questo, quanto piuttosto quello di dare luogo a nuove riflessioni e spunti sui quali lavorare per arginare una delle malattie più drammatiche del nostro tempo.

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