La verità, vi prego, sulla dieta mediterranea #1

mar mediterraneo cartina antica illustrazione

La notizia che la dieta mediterranea è stata iscritta nei Beni Culturali Immateriali italiani dall’UNESCO, vittoria condivisa con Spagna, Marocco e Grecia, sinceramente mi ha alquanto perplessa. Non mi convincono né le motivazioni culturali né quelle biologiche (praticamente non considerate) alla base di questa scelta. Mi convince ancora meno questa politicizzazione di “patria alimentare”, che all’interno del bacino del Mediterraneo, crogiolo di popoli, lingue e saperi (oltre che sapori!) sembra spettare a solo 4 nazioni… dimenticandosi di una storia di meticciati, scambi e incontri alla luce del fantasma della fame.

Sono andata quindi sul sito dell’UNESCO per capire bene cosa si intendesse con la definizione di dieta mediterranea:

La dieta mediterranea è composta da una serie di abilità, conoscenze, pratiche e tradizioni che vanno dalla rappresentazione della tavola alle coltivazioni, ai raccolti, alla pesca, alla conservazione, lavorazione, preparazione e, in particolare, al consumo del cibo. La dieta mediterranea è caratterizzata da un modello nutrizionale che è rimasto costante nel tempo e nello spazio, basato prevalentemente sul consumo di olio d’oliva, cereali, frutta fresca o secca, verdure, un moderato consumo di pesce, latticini e carne, vari condimenti e spezie, tutto accompagnato da vino. E’ una dieta che non comprende solo il cibo. Essa promuove l’interazione sociale in quanto i pasti comuni sono alla base di tutti gli eventi sociali e festivi. Questo ha dato vita a una considerevole mole di conoscenze, musiche, racconti e leggende. Un sistema radicato nel pieno rispetto del territorio e della sua biodiversità, che assicura la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali, artigianali, di pesca e raccolta nelle comunità del Mediterraneo come per esempio quelle di Soria in Spagna, Koroni in Grecia, il Cilento in Italia e Chefchaouen in Marocco. Le donne giocano un ruolo particolarmente importante nella trasmissione dei saperi, come le conoscenze relative ai rituali, pratiche e festività tradizionali e la salvaguardia delle tecniche”.

Una buona definizione, eclettica abbastanza da riconoscere che una dieta tradizionale non è solo quello che si mangia ma anche il contesto culturale ed ecologico nel quale lo si fa.

Eppure qualcosa ancora mi stona, non mi convince, sembra infatti che il lato (o il dato?) biologico non venga proprio preso in considerazione. Ed è grave, secondo me, alla luce proprio delle problematiche che ho sollevato in un mio precedente post dedicato alla gastronomia darwiniana.

Così ho deciso di sondare il Mare Nostrum della dieta mediterranea dal punto di vista biologico e dal punto di vista culturale, con l’intento di fare, se non chiarezza, almeno ordine nel caos mediatico che ha accompagnato l’atto ufficiale dell’UNESCO.

Le implicazioni biologiche
Secondo i biologi nutrizionisti la dieta mediterranea è la dieta tradizionale che si adatta a tutti coloro i cui antenati adottarono il cibo coltivato e si lasciarono alle spalle la dieta dell’Età della Pietra. Essa non è una “specie” ma un mosaico di variazioni che si susseguono dalla Spagna attraverso la Francia del sud, l’Italia, Corfù, la Grecia e l’Asia Minore e il Nord Africa.

Questo regime alimentare è rinomato perché conferisce agli esseri umani la durata di vita più lunga e la percentuale più bassa di malattie cardiache rispetto a qualunque altra parte del mondo. Un motivo per il quale, nel giro degli ultimi due decenni, è stata consigliata come panacea a pazienti colpiti da problemi cardiaci. Anche se non può esistere una dieta valida per tutti, adatta e utile per la maggior parte del genere umano, molti esperti di nutrizione hanno sostenuto che per gli abitanti dei territori urbani e agricoli la cucina mediterranea sia facile da adottare, a prescindere dal fatto che gli antenati provenissero o meno dal bacino del Mediterraneo. E’ possibile quindi che questo regime alimentare sia salutare per la maggior parte degli Europei ed Euro-Americani?

Non è una domanda banale se si tiene conto che questa dieta viene ora usata per colpire la causa numero uno di morte del mondo occidentale: le malattie cardiache. Eppure, anche se vi sono altre cucine tradizionali nel mondo che possono ridurre l’impatto di tali malattie, è la dieta mediterranea a venir nominata più spesso.

Fu Leland Allbaugh a sostenere, nel 1953, che la dieta mediterranea (in special modo quella di Creta) fosse rimasta al passo con le necessità nutrizionali della gente rurale, e praticamente immutata per quaranta secoli. In realtà in quei quaranta secoli, tra invasori che andavano e venivano, erano sopraggiunti il riso dall’oriente, patate e pomodori dall’America del sud, zucchini e fagiolini dall’America del nord, caffè e the. Senza contare che negli ultimi 200 anni, piante e alberi usuali nella dieta delle popolazioni mediterranee sono stati tralasciati come fonte alimentare. A conferma della sua ipotesi sopraggiunse il test di controllo del Seven Country Study coordinato da Ancel Keys, una delle prime ricerche comparate sulla salute informata sia dal punto di vista antropologico che della valutazione nutrizionale; quasi unica quindi, in quel periodo, nel suo genere. Le ricerche di Keys svelarono che nonostante i Cretesi consumassero quasi tre volte i grassi degli Americani , la percentuale di decessi a causa di morte coronarica era di 9 persone su 100.000.
Quindi assumere più grassi era meglio?
Uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1987 replicò il lavoro di Keys, avvalorandone i risultati, ma chiarendo la natura dei grassi chiamati in causa: grassi monoinsaturi, derivanti dalle olive e dall’olio di oliva, che combinati con gli altri cibi mediterranei contribuivano a preservare la popolazione dalla malattie coronariche.

E’ possibile esportare la dieta mediterranea e i suoi benefici lontano dal bacino del mediterraneo?

Sono stati condotti vari studi in merito, tra i più importanti quelli di Kafatos (Università di Creta) su pazienti cretesi, inglesi e irlandesi, un altro da un gruppo di ricercatori di Lione volto ad aumentare il consumo di olio d’oliva in soggetti francesi cardiopatici (più dediti all’utilizzo culturale del burro come condimento) e infine un altro greco su emigrati cretesi in Australia, che conservavano una passione per la propria cucina tradizionale. Lo scopo era quello di calcolare l’impatto che un aumento del consumo dell’olio d’oliva aveva in popolazioni che lo utilizzavano poco o per nulla all’interno della propria alimentazione. In pratica si cercava di capire se tutti sono in grado di tollerare il consumo annuo procapite di circa 12 litri di olio di oliva in Italia o di circa 31 in Grecia.
Il risultato di questi studi è stato ambiguo, anche se è stato ben evidenziato come i Cretesi dimostrassero una maggiore facilità metabolica nel consumare cibi con una predominante presenza di olio di oliva. Essi infatti – a differenza degli altri Europei – presentavano una più veloce clearance post-prandiale (la clearance, in medicina, indica il volume virtuale di plasma che i reni sono in grado di depurare da una certa sostanza”x” nell’unità di tempo) di grassi nel sangue. Senza contare il fatto che l’utilizzo di olio di oliva, in popolazioni che non ne sono avvezze, non è facile, anche per una questione di gusto.

Senza addentrarci troppo in problematiche di natura genetica, gli studi moderni hanno evidenziato una semplice constatazione: dopo secoli di utilizzo della più grande quantità di olio di oliva fra tutte le popolazioni del mondo, le popolazioni mediterranee hanno sviluppato un adattamento genetico a quei livelli di consumo. Se si hanno antenati provenienti da qualche altra etnia, si può provare a mangiare mediterraneo, ma il corpo non si adatterà a questa cucina allo stesso modo di chi vive sulle sponde del Mare Nostrum.

Esiste poi qualcosa di profondamente legato alla cultura nel modo in cui le popolazioni mediterranee mangiano, e nel quale entrano in gioco vari fattori interconnessi tra di loro:

  • la varietà di piante e frutti disponibile (che non può essere replicabile in molti luoghi del mondo);
  • la potente combinazione antiossidante di olio di oliva e verdure (che non può essere garantita come accettabile culturalmente allo stesso modo da altri popoli);
  • la dedizione al digiuno per motivi religiosi, e anticamente per semplice mancanza di cibo;
  • la frequenza di geni di cui sono portatrici le popolazioni mediterranee.

Tutto questo ci porta all’inevitabile deduzione che il contesto ambientale, genetico, ecologico che costituisce parte dell’ossatura della dieta mediterranea non può essere esportato ovunque, e non è salutare per tutti. Non è semplicemente una questione di gusto, vi è qualcosa di profondamente radicato nel luogo, nascosto nelle interazioni gene-dieta-cultura, che rende la cucina mediterranea un vero e proprio adattamento evolutivo. Il vero adattamento deriva da qualcosa di più di un singolo gene legato a un particolare cibo etnico; piuttosto un complesso di alimenti si costruisce e viene costruito attorno a molti geni e comportamenti culturali. La dieta mediterranea è quindi la dimostrazione di come una cultura possa costruire una dieta integrata a partire dalle sole risorse nutrizionali offerte dalla terra e dal mare circostanti.

Allora perché questo comportamento alimentare continua a essere consigliato al di fuori del suo contesto ecologico e bioculturale? Buona parte delle risposte vanno ricercate nella sua storia e nelle implicazioni politiche e culturali di cui è oggetto, di cui parleremo nella seconda parte di questo post.

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