Dolci e simbolismo festivo: S. Lucia

Siamo immersi in pieno clima natalizio, da qui all’Epifania sarà un susseguirsi di pranzi, cene e golosità in onore di sante ricorrenze. Nel precedente post ho parlato ampiamente dell’origine del Panettone, accennando brevemente al legame esistente tra i dolci e le festività. In occasione di S. Lucia, la santa che porta il mio nome, desidero contestualizzare ancora di più questo legame per evidenziare il perché le feste hanno ricette particolari, rituali… e del loro legame con i santi.

Prima di tutto per capire cosa sia una festa dobbiamo definirla. E possiamo farlo attraverso una breve serie di osservazioni:
• durante le feste vigono norme di comportamento differenti da quelle abituali;
• ci si veste differentemente;
• si mangia (o si digiuna) in maniera diversa;
• certi divieti valgono solo per le feste, o le feste li sospendono.

Durante le feste si esce dal tempo profano, e si entra nel tempo del sacro, in cui si ricorda e commemora quello che ha importanza per una comunità, e quindi quello che da senso all’esistenza. Nel contesto festivo il cibo è importantissimo, tanto da essere il nucleo intorno al quale la festa si struttura, prova ne è che la celebrazione si restringe proprio alla consumazione di un alimento rituale.
A ben riflettere, non è un caso che i cibi legati alle feste, e i rituali che li accompagnano, siano entrati a far parte del patrimonio gastronomico italiano. Il sentimento che li ha generati, quel sentire forte la festa, si è trasformato in una sorta di malinconia che rende ancora attuale, e necessario, il loro essere presente sulle nostre tavole. La ricerca del loro senso è continua, perché da conto di un senso di appartenenza che è insieme comunitario e familiare.

Santa Lucia non sfugge a questa regola, anzi, come si dice: santo importante, gastronomia rilevante!
La festa di questa Santa è particolarmente sentita in Sicilia dove è patrona di Siracusa. Il 13 dicembre la statua argentea di Lucia è portata in processione dalla cattedrale sull’isola di Ortigia, il nucleo di Siracusa più antico, fino alla terraferma, nella basilica di Santa Lucia al Sepolcro, luogo in cui rimane fino al 20 dicembre, data in cui viene ricondotta nella cattedrale fra lumiere e fuochi d’artificio. In tutta la Sicilia il 13 dicembre non si mangia pane, ma in segno di penitenza soltanto legumi e verdure.

Questa tradizione pare sia nata in memoria di una carestia che afflisse la Sicilia nel XVIII secolo e che finì proprio grazie all’intervento miracoloso della martire che convogliò sull’isola una flotta di navi cariche di frumento. A Leonforte, in provincia di Enna (ma oramai è usanza quasi ovunque sull’isola), in ricordo dell’avvenimento, dopo la messa, si mangia la cuccìa un dolce (forse di origine araba) dalla lunga preparazione, composta da grani di frumento cotti a lungo nell’acqua e conditi con ricotta, zucca, cannella, cioccolata in pezzi, zucchero e vin cotto. Un tipico dolce sacrale, di cui è uso mangiare tutto, perfino le briciole non devono andare disperse, che si offrono agli uccellini perché il loro destino sia protetto.

In realtà anticamente la devozione alla santa si manifestava mangiando, durante la sua festa, esclusivamente la cuccìa. Ecco perché di norma il frumento si cuoceva con il sale e vi si aggiungevano i ceci, e si condiva il tutto con ricotta salata grattugiata e olio. La versione dolce di questo piatto è nata soltanto in un secondo momento.  Tipiche di santa Lucia sono anche le panelle. Pitrè, il grande folclorista siciliano, così le descrive “I venditori di panelle parano le loro botteghe a festa con panelle ben grosse pendenti attorno all’uscio o distese sopra bianche tovaglie. Sono le panelle come una pattona di farina di ceci; ricevono varie forme e il nome di pisci-panelli perché ab antico hanno la figura di pesci”.

Altro ingrediente principe di questa festa è il riso, che viene presentato sotto la classica versione delle arancine o sotto forme di minestre condite con gli sparaccieddi, i nostri broccoletti, o nel sontuoso riso alla palermitana, ricco timballo condito con melanzane. Insomma il riso sostituiva per l’intera giornata la pasta, e ogni sua variante, dolce o salata, era la benvenuta.

C’è poi la credenza che a chi si astiene dal mangiare cibi a base di farina la Santa conserverà per sempre la vista, così come quella che vuole che nutrendosi solo di verdure e senza pane, si potrà avere un’illuminazione sul nome e volto della futura sposa o dello sposo.
Il culto della santa si è diffuso nel Medioevo in tutta Italia dando vita ad altre credenze e usanze.  La martire siracusana è diventata molto popolare nel Veneto e nelle regioni limitrofe perché le sue reliquie si trovano a Venezia fin dall’inizio del XIII secolo (quelle custodite a Siracusa sono una minima parte). L’antico patronato di santa Lucia sul solstizio, un momento magico perché segna la rinascita simbolica del sole, la ha infine trasformata in una dispensatrice di doni per il nuovo anno in alcune zone dell’Italia nord-orientale.

In alcuni paesi del Bellunese, del Trevigiano e del Veronese i bimbi preparano, nella stanza dove dormono, un piatto con fieno e semola per l’asinello, carico di doni, che accompagna Lucia nel suo giro per le valli. I genitori fanno loro un’unica raccomandazione: di addormentarsi presto e di chiudere bene gli occhi perché altrimenti la santa li accecherà gettando loro cenere. In Valsugana, invece, i ragazzi mettono sulle finestre piatti o scodelle con la crusca per l’asinello, aspettando i doni di Lucia, la quale punisce i più capricciosi lasciando loro, a guisa di ammonimento, una frusta. Nel Bergamasco, fino a qualche decennio fa, era usanza regalarsi dei dolci speciali, i badì dè dama, zuccherini grandi come una moneta e infiocchettati, che venivano poi legati ai due capi dei lacci delle scarpe depositate sul davanzale della cucina insieme con il fieno per l’asinello.

A Udine, invece si allestiscono per l’occasione delle bancarelle di giocattoli e dolciumi nei pressi della chiesa del Redentore. Nelle campagne veronesi era usanza metare le ochete a Santa Lucia, ovvero mettere la carne dell’oca in un intingolo particolare, che durasse per tutto l’inverno. L’oca veniva prima sgrassata, il grasso ricavato si faceva sciogliere in pentola,  l’animale veniva nel frattempo disossato, tagliato a pezzi e lasciato per 4 giorni sotto il sale. Trascorso questo periodo i pezzi venivano fatti scolare, si asciugavano e poi venivano messi in vasi di vetro o terracotta (un po’ come salam d’la duja di cui ho scritto qui), avendo cura di coprirli con il grasso precedentemente sciolto. In questo modo la carne poteva conservarsi anche un anno. La tradizione prevedeva comunque che il primo vaso venisse inaugurato a Capodanno, per augurare giorni fecondi e ricchi di soddisfazione a tutti i componenti della famiglia.

A Verona le mamme erano poi solite preparare ai bambini el saladin de Santa Luzia, un salamello che la macellazione del maiale rendeva facilmente disponibile. Al sud invece, in Campania, la festa della Santa si celebrava con i pulpetielle affogati.

I dolci dedicati a questa santa erano per lo più casalinghi, umili, discreti come le si addice. In alcuni è chiaro l’intento propiziatorio, come nei biscotti a forma di occhio o di occhiale, al sapore di anice, che a Ortona in Abruzzo chiamano Occhi di santa Lucia.
Per una panoramica ancora più vasta sui rituali e le ricette dolci e salata dedicate a questa Santa e al suo dolce più importante, la cuccia, vi rimando al bellissimo articolo di Vito teti che trovate qui.

Voglio chiudere con un’ultima riflessione, dedicata alla scomparsa delle dolci votivi, o meglio, a una loro deritualizzazione. Qual è la trasformazione in atto?
Oggi la festa è vissuta più per se stessi che per i Santi. Questo vuol dire che, consapevoli del potenziale economico e di richiamo di un evento festivo, le comunità ne hanno fatto un evento-spettacolo. Questo a scapito anche di una lavorazione manuale, e del rispetto della stagionalità delle materie prime impiegate nei piatti rituali.

Cosa si è perso?
1. Le dinamiche di preparazione non sono più legate al saper fare manualmente. Prima tutto veniva fatto a mano dando estrema importanza al lato estetico del piatto da offrire al santo, oggi la tecnologia e la delega ai mastri pasticceri la fa da padrona;
2. i tempi da dedicare alla preparazione domestica sono comunque estremamente ridotti, rispetto al passato. Prima gruppi molto grandi di donne lavoravano insieme per interi giorni;
3. i gusti sono profondamente cambiati, specie tra i giovani che sono indirizzati verso quelli meno decisi e complessi del regime festivo tradizionale.

Le motivazioni della deritualizzazione dei dolci festivi vanno ricercate quindi nel benessere economico e nell’indebolimento della loro carica simbolica (sono presenti, volendo, tutto l’anno sulle nostre tavole). Oggi nessuna preparazione comporta un sacrificio economico e di tempo, senza contare che le materie prime sono sempre disponibili.
Sopravvivono quei cibi rituali che hanno un valore simbolico, che se pur non esplicito è ancora socialmente condiviso, proprio come il panettone.

Ecco, solo accennata, l’importanza che riveste il mangiare una determinata ricetta in un preciso tempo festivo. Penso che molta della magia dei cibi rituali sia nascosta in questi semplici e antichi gesti, voi che dite?

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