La Decrescita di Latouche e il paragone con la cucina

In un periodo come quello che stiamo vivendo, dove un vecchio sistema si intestardisce a tramandare e riproporre schemi economici che hanno dimostrato tutta la loro debolezza e inconsistenza (a livello sociale ed ecologico) leggere “Come si esce dalla società dei consumi” di Serge Latouche può aiutare molto nella comprensione delle motivazioni  che sono dietro questa testardaggine. La Crescita, di cui sentiamo tanto parlare come unica soluzione

è soltanto quella del capitalismo e si limita a un processo di distruzione della civiltà contadina e artigiana, insieme alla rapina imperialista nel resto del mondo“.

Pensare che le risorse del nostro pianeta siano illimitate è un modo miope di considerare il futuro, contiene i semi di un’autodistruzione ormai avviata, e della non considerazione assoluta delle generazioni che verranno. La risposta è la “Decrescita“, un termine e un modo di agire ormai diffusi che Lautoche ha ben enucleato nei suoi libri e conferenze. In questo libro troverete molta della teoria su cui si basa il suo progetto di democrazia ecologica e società di abbondanza frugale. In alcuni passaggi è un po’ ostico, ma gli spunti che dissemina sono fonte di riflessioni profonde, interessanti, e, cosa più importante, praticabili. Poca retorica e molta lucidità anche su concetti come “sviluppo sostenibile“, “commercio equo e solidale“, troppo spesso specchietti per le allodole se pianificati con gli stessi strumenti del consumismo.

La soluzione per attuare al meglio questa matrice di possibilità, teorizzata dall’Autore, avviene attraverso le 8 R:

  1. Rivalutare;
  2. Riconcettualizzare;
  3. Ristrutturare;
  4. Rilocalizzare;
  5. Ridistribuire;
  6. Ridurre;
  7. Riutilizzare;
  8. Riciclare.

E’ questo il modo di realizzare questa utopia concreta auspicata da Latouche, e lui stesso, attraverso le R, ce ne illustra la teoria e la pratica (anche se la teoria spesso supera, nelle sue dissertazioni, la pratica).

C’è poi un approccio spirituale alla Descrescita che non poteva non affascinarmi: l’etica della Decrescita unisce disciplina personale e impegno nel mondo. E’ ascesi che si traduce in una lotta contro la tossicodipendenza da consumismo e, al contempo, accettazione dell’essere attraverso l’interiorizzazione della bellezza del cosmo, vissuta come un dono. Qui si apre la critica che l’Autore muove alla tradizione cristiana che vede la natura creata per servire l’uomo e che quindi lo deresponsabilizza da ogni scelta ecologica e agricola a differenza di quanto accade nelle altre religioni come quelle buddista e induista. Critica sottintesa nella visione  cosmoteandrica di San Francesco d’Assisi, palese in Adolf Portmann, Vittorio Lanternari e in Wendel Berry. Ecco quindi che ai miei occhi il prezioso libricino “Il dono della buona terra. I fondamenti della responsabilità ecologica e del giusto uso umano della natura nel Vecchio e nel Nuovo Testamento” di W. Berry trova integrazione in un contesto ampio, sociale, conviviale dove la religione può tornare a essere naturale, ovvero vita onesta e coscienza del “giusto modo di vivere”.

Neppure quello che abbiamo nel piatto, frutto di scelte agricole e politiche, è immune da Crescita e Descrescita. Il cibo così saldamente legato all’universo e all’universalità della religione, qualunque essa sia, è punto nevralgico del nostro Essere-Al-Mondo. Ecco perchè Latouche propone un paragone tra Decrescita e gastronomia che in sé contiene buona parte del suo messaggio. Credo che questo brano possa far comprendere meglio il pensiero di questo Autore, di cui consiglio vivamente la lettura:

“La cucina è una buona metafora del destino dell’utopia meridiana e al tempo stesso un buon indicatore della sua fondatezza. C’era una dieta mediterranea, il famoso regime cretese, a base di grano duro e legumi (secchi e freschi), accompagnati da un poco di carne o pesce e olio d’oliva, oltre che da frutta. Questo regime è stato ampiamente abbandonato sulla riva nord del Mediterraneo, e lo è sempre di più anche sulla riva sud, a vantaggio di una dieta transnazionale, quella del cibo spazzatura (junk food). Questa dieta, causa di obesità e di malattie cardiovascolari, si inserisce nella generale dipendenza da consumo generata dalla società della crescita, da cui il progetto della decrescita vuole liberarci.
Certo, per l’obiettore di crescita l’obesità che si va diffondendo è legata all’insieme dello stile di vita prodotto dalla società della crescita: diminuzione dell’attività manuale a vantaggio di una vita sedentaria e passiva negli uffici (e anche nelle fabbriche), diminuzione degli spostamenti a piedi a vantaggio dei tragitti in automobile, compensata in modo del tutto inadeguata dalla moda del jogging e della bicicletta. Tuttavia, l’obesità è un fenomeno che chiama specificamente in causa innanzitutto il regime alimentare prodotto dalla società consumistica, soprattutto nella sua fase più recente (di cocacolizzazione e di macdonaldizzazione). In effetti la globalizzazione ha trasformato il regime alimentare dei consumatori creduloni e imprudenti, sedotti dalle apparenze e felicissimi di consumare fuori stagione splendidi frutti calibrati (spesso insipidi e velenosi) arrivati dall’altra estremità del pianeta. Si è passati così da un’alimentazione equilibrata basata su un metabolismo millenario (il famoso modello cretese o mediterraneo) a un’alimentazione industriale, troppo ricca di zucchero, grasso, sale e molecole di sintesi. Per esempio, secondo uno studio di Didier Raoult, direttore del laboratorio di virologia dell’Hopita de la Timone, a Marsiglia, gli yogurt cosiddetti “di salute” Activia o Actimel, imbottiti di probiotici, i “buoni batteri attivi e vivi” (Danone dixit), sarebbero uno dei fattori che favoriscono l’obesità. La cosa non sorprende, se si pensa che sono le stesse molecole che vengono propinate negli allevamenti industriali a maiali e pollame per ingrassali. D’altra parte, l’abuso di carne, soprattutto rossa, sarebbe responsabile dell’insorgenza del cancro.
I fast food sono diventati il simbolo di questo modello da eliminare, di cui Yves Cochet dà la gustosa formula: “Produttori mal pagati+energia a buon mercato+bassi costi di trasporto+trasformazione da parte di proletari stranieri+ impatti ambientali e sanitari non contabilizzati=alimentazione “moderna” a buon mercato per consumatori occidentali frettolosi”. Contro tutto questo si battono sia gli obiettori di crescita che il movimento Slow Food. In effetti è proprio dall’Italia, con Carlo Petrini, che è partita la reazione, con la riabilitazione della cucina meridionale. Si può dire che il movimento Slow Food rappresenti il versante culinario del progetto della decrescita. Il fatto che i partigiani della decrescita si occupino di gastronomia può sorprendere. Ma mangiare è diventato, secondo l’espressione di Petrini, un “atto agricolo”, se non addirittura un atto politico. Interrogarsi sul contenuto del piatto che ci sta davanti rivela una legittima propensione ai piaceri del palato, e al tempo stesso la gastronomia ha un rapporto con la totalità della vita sociale. Un gastronomo che non è anche ecologista è un imbecille, ma un ecologista che non è gastronomo è un personaggio triste, ama ripetere Petrini. Il socialista Charles Fourier, precursore della decrescita, diceva già: “Si avranno dei buoni prodotti agricoli quando tutti i consumatori, picchi o poveri, saranno conoscitori esigenti della qualità. E’ necessario che l’umanità diventi gastronoma prima di diventare agronoma”. Probabilmente un’alimentazione sana e gustosa e un buon modo di procedere sulla strada della decrescita, oltre che un mezzo per combattere l’obesità”.”
(Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, 2011, Bollati Boringhieri, pag 157-159)

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