Stati Generali della Pediatria “Nutrizione e salute dal bambino all’adulto”

E’ stato con piacere che ho accettato di relazionare, il 17 novembre a Roma, alla seconda edizione degli Stati Generali della Pediatria, organizzati dalla Società Italiana di Pediatria, che quest’anno sono stati dedicati all’interessantissimo tema “Nutrizione e salute dal bambino all’adulto”. Un evento che si è tenuto in contemporanea in varie regioni d’Italia, in occasione della Giornata mondiale del bambino e dell’adolescente. L’obiettivo dichiarato nel programma dell’evento, e fortemente sostenuto in tutto l’arco della giornata, è stato quello di promuovere l’adozione di stili di vita salutari e di corrette abitudini alimentari sin dalle primissime età della vita. Comportamenti indispensabili per prevenire malattie mortali e invalidanti poi nell’adulto (diabete, ipertensione, malattie cardioischemiche, allergie, osteoporosi).

La scelta di dedicare la prima sessione dei lavori all’antropologia dell’alimentazione è sicuramente indicativo di quanto questa disciplina abbia importanza all’interno di una società che vede nelle malattie metaboliche il secondo fattore di mortalità nel mondo. L’antropologia non serve solo a raccontarci l’origine e la tradizione di quello che mangiamo ma ci consente anche, sulla base della storia di una comunità e del suo territorio, di attuare politiche e pratiche di prevenzione che hanno forti ripercussioni sulla salute.

Mi è quindi sembrato importante, a inizio del mio intervento, chiarire cosa è e di cosa tratta questa materia, come può essere utile e quali problemi pratici concorre a risolvere nell’ambito nutrizionale. Sono partita proponendo due definizioni della materia, la prima di Giovanni Ballarini:

“L’antropologia dell’alimentazione è lo studio delle interazioni tra gli uomini ed i loro cibi, in un contesto non nutrizionale, che può descrivere i sistemi alimentari con il fine di conoscere i comportamenti alimentari nelle diverse culture”

L’altra è di Solomon Katz, antropologo dell’alimentazione statunitense:

[…] Il moderno studio delle origini, e l’ampiezza della variazione della dieta umana, influenzano direttamente la nostra comprensione dell’evoluzione dell’uomo. Quello che gli esseri umani mangiano è in larga misura dettato dalle tradizioni culturali, ma il livello di soddisfazione nutrizionale di una dieta di base dipende ampiamente dalla […] biologia. L’ovvia interfaccia fra biologia e cultura ha incoraggiato lo sviluppo di un nuovo approccio o “paradigma” che analizza e interpreta l’adattabilità biologica e culturale come fenomeni in interazione continua attraverso l’evoluzione umana… [è ora chiaro che] i popoli hanno sviluppato adattamenti biologici a piante specifiche e ad altri cibi da cui sono diventati dipendenti in un periodo di tempo molto lungo.”

Saltano subito all’occhio due differenze: Ballarini è più “culturale” mentre Katz sottolinea quell’interazione gene-cibo-cultura fondamentale per avere un approccio a 360 gradi sulla materia. Sia chiaro, Ballarini non ha detto stupidaggini, ma il suo approccio, secondo me, rischia di dare un’idea un po’ troppo erudita di una materia che in realtà è vitale e non relegata nella ricerca da biblioteca. Mi trovo indubbiamente più a mio aglio nell’interpretazione di Katz. Perché è incontestabile che l’alimentazione umana ha due componenti: biologica (che indica quali sono gli alimenti utili per una corretta ed equilibrata alimentazione) e culturaleche ci dimostra perché l’uomo ha un bisogno culturale del cibo e di quanto vi è connesso (regole, riti,immaginario ecc.). Le singole tradizioni culinarie non sono semplicemente ingredienti casuali messi insieme a casaccio, al contrario riflettono la storia evolutiva di un particolare popolo nel suo far fronte alla disponibilità di piante e di animali commestibili (attraverso caccia, agricoltura o commercio) alle malattie più frequenti, allasiccità, alle malattie. Il cibo riflette l’interazione fra diversità biologica e culturale.

Quando dei cibi sono abbandonati da una comunità si verifica sempre un certo grado di perdita culturale. Per evitare che questo avvenga bisogna capire perché le tradizioni culinarie sono importanti. Le cucine etniche hanno radicate basi ecologiche, e traiettorie evolutive di rilevante importanza per lo stato di salute dei loro consumatori.

Ed è qui che entra in gioco l’antropologo dell’alimentazione, che ha due possibilità: immergersi nello studio della propria cucina o in quello delle cucine diverse dalla sua. Quale che sia la sua decisione, non potrà mai dimenticarsi dell’interazione tra biologia e cultura.

In questo blog si riesce bene a capire cosa fa un antropologo dell’alimentazione quando si occupa di studiare l’identità alimentare della cultura di appartenenza, nella sezione “antropologia alimentare” gli esempi sono vari. Ma l’antropologo può studiare anche le altre cucine, vuoi per l’interesse che lo spinge a studiare la propria, vuoi per fronteggiare un problema pratico.

Sappiano, per esempio, che la presenza nel nostro paese di cittadini stranieri non è più un fenomeno temporaneo e transitorio e ciò ha portato ad un crescente interesse per le problematiche sociali, sanitarie e assistenziali relative agli immigrati. Il 22° Dossier Caritas sull’immigrazione (2012) ha stimato che il numero complessivo degli immigrati regolari, inclusi i comunitari e quelli non ancora iscritti in anagrafe abbia di poco superato i 5 milioni di persone alla fine del 2011. Un dato impossibile da sottovalutare specialmente se teniamo conto che le persone immigrate possono essere esposte a rischio di malnutrizione che può essere definita “acuta” in seguito a viaggi lunghi ed estremamente disagiati, e “cronica” dovuta ad un basso livello di reddito che rende difficile un’alimentazione quotidiana variata ed equilibrata. A questo bisogna sommare l’impatto che il fattore religione ha sull’alimentazione insieme a tutta una serie da “patologie da importazione” (quelle malattie assenti o attualmente poco diffuse in Italia ma frequenti nei paesi d’origine), e successivamente le “patologie da adattamento” legate al particolare significato che l’esperienza della migrazione assume nella vita di una persona. Questa esperienza è talmente importante che in letteratura si parla di “shock culturale” che può dare esito a vere e proprie malattie psicosomatiche e/o a condizioni patologiche dovute alla transizione tra cultura, abitudini, stili di vita diversi.

Il rapporto cibo-migrazione si dispiega su piani molteplici e diversi che coinvolgono la realtà ma anche l’immaginario e la dimensione simbolica del cibo. Sono molti gli esempi che dimostrano come sia fortissimo il desiderio dei migranti di ogni tempo di agganciarsi al cibo come mantenimento di una identità culturale che si avverte minacciata ed a volte umiliata dai contatti con l’esterno. Attraverso il cibo viene mantenuto un rapporto di continuità culturale con il paese d’origine anche attraverso i riti collettivi di ogni comunità, come i pranzi festivi e domenicali costituiti quasi esclusivamente, quando possibile, da prodotti caratterizzanti l’alimentazione del paese di provenienza. Il cibo non è più solo un bisogno fisiologico, ma diventa l’esplicitazione di una realtà culturale che declina l’identità cultura in varie aspetti:

  • Economica: la quantità e la qualità dei cibi erano in stretto rapporto con l’appartenenza a un certo grado della scala gerarchica, indicatore della differenza di classe sociale;
  • Religiosa: i tabù alimentari hanno il ruolo di evidenziare l’appartenenza a una comunità. Si possono o non si possono mangiare degli alimenti e in base a questa osservanza il fedele preserva la sua vita spirituale, traendone un senso di approvazione;
  • Filosofica: in questo caso parliamo di diete che non hanno per forza di cose un legame religioso, come i vegetariani, si tratta per lo più di una alimentazione definita etica;
  • Etnica: un particolare cibo (per esempio il couscous per gli arabi) si trasforma in piatto tipico nell’immaginario e concorre ad affermare la propria identità culturale.

Come si traduce tutto questo in pratica? Alcuni dati:

L’obesità’ – dai dati ISTAT, 5% della popolazione infantile immigrata – è un problema emergente anche se non e’ semplice per le famiglie affrontarlo come priorità. Le madri straniere, se non accompagnate, rischiano di porre in secondo piano le proprie tradizioni culturali e di adeguarsi alle abitudini alimentari della popolazione italiana per quanto riguarda le modalità di allattamento, svezzamento e tipologia di prodotti alimentari introdotti. L’obesità, oggi, viene posta nel contesto della cronicità, paradossalmente presente in situazioni di disuguaglianza economica, emergente nella popolazione migrante del nostro paese; la sfida della nostra società è la capacità di prevenirla, accogliendo sensibilmente altre realtà e altre culture nel rispetto delle loro tradizioni.

Nell’ottica della prevenzione la strategia sarà di mettere in campo capacità di accoglienza e attenzione a conoscere le altre realtà e le altre culture, abbattendo il pregiudizio e favorendo un atteggiamento dinamico, evolutivo, aperto alla ricerca di valori comuni ma non chiuso alla differenza può favorire il processo di promozione della salute.

Tutto il discorso illustrato fino a ora vale solo per gli immigrati? No, è indubbio che le stesse problematiche sono presenti anche nella nostra cultura, obesità e malattie metaboliche sono presenti anche nella popolazione europea in modo preoccupante tra i bambini e gli adolescenti . Ecco perché è importante tornare a capire il senso delle antiche tradizioni culturali gastronomiche e delle interazioni che intessono con un ambiente a sua volta vissuto da una comunità. Molte malattie collegate alla dieta posso essere annullate facendo ritorno alle diete tradizionali caratteristiche di una cultura.

C’è da chiedersi allora cosa c’è di buono nel sapere che l’alimentazione tradizionale può guarire il corpo se nessuno è poi interessato a prendersi cura di quel territorio, che produce gli alimenti alla base della dieta etnica, luogo di vita della comunità che li coltiva. Ecco forse è questo il senso da ricercare nella cura della propria salute e in quella degli “Altri“.

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